Nonostante eufemismi, perifrasi, artifici dialettici ed acrobazie ermeneutiche che spesso caratterizzano l’argomentare giuridico di alcune Corti italiane, non può sfuggire ad una fredda e distaccata analisi del caso Englaro, il tentativo di introdurre, surrettiziamente, nel nostro ordinamento giuridico, attraverso un’interpretazione giudiziaria creativa, l’istituto giuridico dell’eutanasia, a sua volta specificazione, concretizzazione del c. d. diritto di morire. D’altra parte, molti tra coloro che oggi denunciano l’assenza di una regolamentazione giuridica della tematica del “fine vita” ed invocano, come urgente ed indifferibile, l’approvazione di una legge che introduca l’istituto del c. d. testamento biologico, sono fautori più o meno consapevoli di questo, davvero strano, “diritto di lasciarsi morire”.
Sono stati invocati a sostegno della decisione della Corte d’appello di Milano, numerosi principi costituzionali che, certamente, appartengono alla c. d. civiltà del diritto, ma, essenzialmente, il principio cardine, attorno a cui ruota il ragionamento dei giudici, è quello della libertà di autodeterminazione in campo terapeutico, secondo cui è illegittimo sottoporre a trattamenti medici un paziente contro la sua volontà. Principio nobilissimo, qualcuno potrebbe dire, e lo direbbe senz’altro a buon diritto! Il problema, però, qui non è evidentemente l’intrinseca bontà di questo principio che è, oggettivamente, incontestabile, ma la correttezza o meno della sua applicazione alla vicenda che ci occupa.
I giudici, infatti, hanno autorizzato la sospensione del trattamento di alimentazione ed idratazione artificiale di Eluana Englaro, sulla base della sua qualificazione, in termini di trattamento sanitario, tale da poter essere somministrato, solo con il libero consenso dell’ammalato. Ma, il dare da bere e il dare da mangiare ad un disabile, non possono evidentemente considerarsi dei trattamenti sanitari, ma una forma doverosa di sostegno vitale in favore di chi, a motivo del suo stato, non è in condizioni di nutrirsi e di idratarsi da sé, allo stesso modo in cui si alimentano e si idratano un malato terminale, oppure un neonato che, abbandonato a sé stesso, morirebbe di inedia. Quindi, i giudici hanno fatto passare per trattamenti sanitari brutalmente imposti ad una donna in stato comatoso, semplici atti di soddisfacimento di bisogni fisiologici, universali, avvertiti indistintamente dal sano come dall’ammalato, tanto da chi si trova in stato di incoscienza, quanto da chi si trova nel pieno possesso delle sue facoltà.
Qualcuno potrebbe tuttavia obiettare che i giudici hanno soltanto cercato, in assoluta buona fede, di rispettare la volontà della povera Eluana che avrebbe esternato ai suoi familiari il desiderio di farla finita nell’eventualità in cui, a causa di un evento traumatico, si fosse trovata in stato di coma vegetativo. Ora, se per un attimo abbandonassimo i condizionamenti emotivi del sentimentalismo buonista e del falso pietismo che ostacolano, o, come spesso accade, impediscono un giudizio sereno, non esiteremmo a riconoscere che quelle dichiarazioni, lungi dal costituire un atto di ultima volontà giuridicamente vincolante, sono piuttosto delle affermazioni che, spesso in preda all’emotività, siamo soliti fare tutte le volte in cui, magari in occasione di disgrazie che hanno colpito parenti o amici, pensiamo all’eventualità tragica del coma. Ma, anche a voler riconoscere a quelle dichiarazioni il carattere di una certa, lucida e definitiva manifestazione di volontà, non può, in base alle norme vigenti, invocarsi la volontà espressa dal disabile, prima di precipitare nello stato comatoso, allo scopo di autorizzare una struttura sanitaria a praticare una vera e propria eutanasia passiva, attraverso la omissione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale mediante sondino naso gastrico.
Cosa avrebbero dovuto fare allora i giudici? Considerando che i giudici non sono deputati alla produzione delle norme, ma soltanto alla loro interpretazione, essi avrebbero dovuto prendere atto della assoluta illiceità, alla stregua delle norme vigenti, di qualsiasi intervento volto a cagionare la morte del paziente, stante la superiorità e la intangibilità del bene della vita, un bene che non è nella disponibilità neppure del suo titolare.
Se il bene della vita fosse disponibile, non si capirebbe perché la legge penale punisca l’omicidio del consenziente. Si commette, infatti, reato tutte le volte in cui si procuri, direttamente o indirettamente, la morte a qualcuno, anche quando ciò avvenga in esecuzione della volontà suicida altrui. Infatti, anche se non è punito il tentativo di suicidio, è comunque punito il suicidio assistito che si esplica proprio nella prestazione di un contributo alla realizzazione proposito altrui di darsi la morte.
Quindi, il vero diritto affermato dai giudici milanesi, non è il diritto di autodeterminarsi in campo terapeutico, ma il preteso di diritto di lasciarsi morire, un diritto nuovo, di conio giurisprudenziale che andrebbe ad arricchire il catalogo dei diritti costituzionalmente tutelati della persona. Questa trovata è davvero geniale: abbiamo una Costituzione che tutela contemporaneamente la vita che è realmente un bene giuridico e la morte che, in sé, non è un bene, ma un semplice fatto che, da epilogo naturale dell’esistenza terrena, da evento tragico da esorcizzare, da comune destino, velato di mistero, diviene l’oggetto di una pretesa giuridica azionabile in giudizio.
-Movimento per la Vita-
Alessandro Carra
giovedì 5 febbraio 2009
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